Gentile Presidente Obama,
Domenica 12 aprile io, assieme ad altri armeni arrivati da tutto il mondo,
ero seduta nella cattedrale di San Pietro nella Città del Vaticano e ho ascoltato
Papa Francesco definire il massacro degli armeni del 1915 come il primo
genocidio del 20° secolo. Parole subito sentite in tutto il mondo, parole che
hanno acceso una discussione, parole che hanno spinto l'umanità più vicino alla
comprensione e al riconoscimento della verità. Ho partecipato alla Santa Messa
perché sono un’armena-americana di seconda generazione e, essendo stata
cresciuta conoscendo la verità sul genocidio armeno, ho voluto assistere a questo
pronunciamento storico.
Negli anni 90 del 1800, i miei nonni sono nati ad Ankara e a Malatya, Turchia,
e a Van, Armenia. Nei primi anni del 1900 hanno perso i familiari, le loro
case, il loro paese, il diritto di culto della loro religione cristiana e la
loro libertà di parlare la lingua armena—a chi lo avesse fatto i turchi
avrebbero tagliato la lingua. Quello che non hanno mai perso era la loro
dignità e la memoria di quegli atti terrificanti commessi dai Giovani Turchi
contro il loro popolo.
Siccome i giovani armeni erano i primi a essere mandati nell'esercito
turco, e pochi se non nessuno ritornò, nel 1908 all'età di sedici anni mio
nonno materno e il suo fratello gemello lasciarono Malatya, Turchia, per andare
negli Stati Uniti. Il mio bisnonno, preside di una scuola a Malatya, aveva in
precedenza visitato gli Stati Uniti, e decise di mandare i suoi figli maggiori
prima del resto della famiglia a vivere con lo zio a Philadelphia. L'intera
famiglia, dieci in tutto, prevedeva di trasferirsi in America l'anno successivo.
Invece, una sera, mentre seduti al tavolo della sala da pranzo a casa, furono tutti
massacrati. Questo è accaduto nel 1909 e, a quanto pare, il mio bisnonno era
uno di quegli intellettuali che i Giovani Turchi volevano togliere di mezzo. A
causa del destino, e di una decisione astuta da parte del mio bisnonno, mio
nonno e suo fratello sopravvissero. Solo a causa di tale decisione oggi io sono
qui. Pertanto, è mio dovere come armena e come americana raccontare questa
storia.
Fra la fine del 1910 e gli inizi degli anni ‘20, uno a uno, gli altri miei
nonni sono emigrati anche loro negli Stati Uniti. Hanno creato piccole imprese
a Philadelphia e a Los Angeles. Hanno lavorato duro e non hanno mai chiesto un
sussidio. Mio nonno materno è diventato un sarto, e ha spesso pressato le uniformi
militari per i soldati americani. Era un uomo religioso, e ha ricevuto una
lettera dal Presidente Truman che lo ringraziava per le note d’ispirazione, foglietti
di carta, che lasciava nelle tasche delle uniformi dei soldati. Lui amava
l'America tanto quanto gli mancava la sua famiglia e la sua terra madre. Si è
aggrappato alla sua fede e ad un modo democratico di vita e di pensiero. Morì
nel 1966 senza aver mai sentito un solo paese riconoscere ciò che sapeva, che
le sue perdite personali erano dovute al genocidio.
Tuttavia i miei nonni guardavano al futuro e mandavano i loro figli alla scuola
pubblica. Mio padre si è arruolato in Marina Militare e ha combattuto nella
seconda guerra mondiale, e poi è diventato un vigile del fuoco della contea di
Los Angeles. Mia madre era una segretaria degli Ufficiali della Marina a
Philadelphia. Dopo sposata e fino a quando lei è andata in pensione, ha
lavorato per la contea di Los Angeles nei servizi sanitari. Ora, all'età di 90
anni, è la Democratica più democratica che io abbia mai conosciuto. Ha
insegnato a me e ai miei fratelli di onorare la nostra cultura armena e di
amare e credere negli Stati Uniti d’America. Abbiamo capito quanto siamo stati
fortunati a vivere in un paese che ci ha dato libertà e opportunità. Una vita
che 1,5 milioni di altri armeni non hanno mai avuto.
Signor Presidente, anche se vivo in Italia, nel 2008 instancabilmente ho
fatto campagna elettorale per lei sia con il gruppo Americans in Italy for
Obama che con il phone banking presso
il vostro ufficio della campagna a Norristown, Pennsylvania. Nel 2012 ho fatto
campagna elettorale per lei con la sezione di Venezia dei Democratici Americani
all'estero. L'ho fatto perché lei era il candidato migliore che avessi mai
avuto l'onore di poter votare. Ho creduto in lei, cosi come oggi. L’ho
sostenuta ogni passo del suo percorso da Presidente, e sono venuta a
Washington, D.C. per la sua seconda inaugurazione. Ero lì, in mezzo al
pubblico, festeggiando con orgoglio la sua vittoria. Tuttavia, durante le due
campagne elettorali, molti dei miei familiari e amici armeni-americani non
erano così convinti di votare per lei come lo ero io. Ho lavorato con loro,
parlato con loro, discusso con loro. Ho postato sul social network; ho organizzato
il video YouTube “Gondoliers in Venice for Obama” che è subito diventato virale.
Comunque, la cosa che ha convinto quegli amici e familiari armeni a votare a
favore e non contro di lei era la sua promessa di riconoscere la “Questione Armena"
come genocidio.
Il 24 aprile 1915 segna l'inizio delle uccisioni di massa degli armeni; un
giorno in cui diverse centinaia di intellettuali armeni sono stati arrestati e
successivamente giustiziati. Precedenti massacri di armeni sono avvenuti, tra
cui quello del 1909, quando i membri della mia famiglia ne sono stati vittime.
Adesso, cento anni dopo, le parole "Genocidio Armeno" sono espresse
da paesi influenti e venerati e dai leader del mondo. Da quando Papa Francesco le
ha pronunciate domenica 12 aprile, hanno occupato tutti i titoli dei media
internazionali. Le chiedo, signor Presidente, non è il momento di tener fede
alla sua promessa?
Capisco che la popolazione turca di oggi non è colpevole per le azioni
orribili commesse dai loro antenati e che molti studiosi e civili turchi affronterebbero
più apertamente la verità se fosse permesso loro farlo. Capisco anche che la Turchia
è un alleato strategico per gli Stati Uniti e l’Europa. Tuttavia, quanto può
essere affidabile qualsiasi rapporto se minacciato dal riconoscimento di una scomoda
verità?
In nome dei miei bisnonni e i miei nonni, in nome di tutti gli armeni le cui famiglie hanno storie come la mia, in nome delle popolazioni che ora stanno sopportando atrocità simili in tutto il mondo e coloro che, a causa del nostro silenzio, rischiano lo stesso in futuro, la imploro di affrontare questo solenne 100° anniversario con la parola singolare che onestamente descrive gli eventi che seguirono il 24 aprile 1915. La parola è genocidio.
Con rispetto e ammirazione,
Marie Ohanesian Nardin